Dal Corriere della Sera, un articolo sul mondo del calcio che, nel giorno della memoria ricorda l’allenatore ebreo che vinse lo scudetto del 1929-30
L’allenatore che scoprì Giuseppe Meazza
e morì ad Auschwitz: una targa allo stadio
Giorno della Memoria, il ricordo di Árpád Weisz
Il mister che vinse lo scudetto on l’«Ambrosiana»
MILANO – Una targa nello stadio in cui lanciò Giuseppe Meazza e che porta proprio il nome del campione interista. Il 27 gennaio, il Giorno della Memoria, è stata affissa nel foyer della sala Tribuna rossa, una scritta commemorativa in onore di Árpád Weisz. Ovvero l’allenatore ebreo che vinse lo scudetto del 1929-30 con l’allora Ambrosiana e che, quattordici anni dopo, divenne una delle sei milioni di vittime dell’Olocausto.
LA MORTE AD AUSCHWITZ– Figlio di ebrei ungheresi, Weisz fu egli stesso calciatore di buon livello e allenatore innovativo, tra i primi a scendere in campo in tuta insieme con i giocatori durante gli allenamenti, mister dell’Ambrosiana e quindi del Bologna. Poi, come recita la targa affissa dal Comune di Milano, «in seguito alle leggi razziali del 1938 dovette lasciare l’Italia. Fu catturato e deportato nel campo di sterminio di Auschwitz dove trovò la morte assieme alla moglie e ai suoi due figli». Alla cerimonia hanno preso parte, tra gli altri, il presidente della Comunità ebraica di Milano Roberto Jarach, il consigliere dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane Riccardo Hoffmann, il presidente dell’Inter Massimo Moratti con la moglie Milly e il capitano nerazzurro Javier Zanetti. Oltre agli alunni del Liceo artistico Boccioni di Milano, che indossavano ognuno la sciarpa della propria squadra del cuore.
Irene Zisblatt nacque nel 1930, in una famiglia ebrea ortodossa con sei fratelli; viveva a Polena, una cittadina cecoslovacca.
Sotto il governo ungherese le leggi antiebraiche e la violenza contro gli ebrei aumentarono vertiginosamente a Polena.
Quando l’armata tedesca occupò l’Ungheria, nel marzo del 1944, Irene tentò di nascondersi con la sua famiglia, ma furono ben presto catturati ed inviati ad un ghetto. Quando le guardie fecero appello a chi volesse lavorare in una zona vinicola ungherese, la famiglia di Irene fu tra coloro che si offrirono volontari; furono caricati su un carro bestiame di un treno merci che li portò ad Auschwitz-Birkenau invece che all’azienda vinicola.
Irene fu subito separata dalla sua famiglia e fatta entrare nel campo; a soli 13 anni sopravvisse agli esperimenti medici ed evitò per un soffio la morte nelle camere a gas. Fu quindi portata in un campo di lavoro come addetta ai lavori meccanici.
All’inizio del 1945 le guardie tedesche costrinsero Irene ed altri prigionieri in una brutale marcia della morte diretta verso il centro della Germania; dopo alcune settimane, quando solo una piccola parte dei prigionieri rimasta in vita, Irene fuggì nei boschi, e fortunatamente i soldati statunitensi la trovarono quella stessa notte e la portarono in salvo.
Irene fu l’unica sopravvissuta di tutta la sua famiglia.
Dopo aver vissuto per due anni in un campo profughi si trasferì negli Stati Uniti, dove si sposò.
La cosa che mi ha impressionato di più è che Irene sia riuscita a farsi una nuova vita e a sposarsi, perchè altre persone sopravvissute si sono suicidate.
Scusate, il libro narra la storia realmente accaduta ad Alba Valech. I suoi pensieri e la sopravvivenza la fanno da padrone. Alla fine del libro c’è pure un intervista.
Nome: Gavriel
Cognome: Balenzin
Nato il 25/6/1927, Morto il …../……/1943
Segni particolari: Non sono stati identificati dati della seguente persona.
Ho deciso di creare questa carta di identità per far capire a gli altri che quello che è successo nella seconda guerra mondiale. Milioni di ebrei sono morti durante l’olocausto senza che nessuno li ricordasse.
Pensate che molte persone famosissime non lo sa nessuno che erano ebree, per esempio Albert Einstein, Woody Allen e Rita levi Montalcino.
Per trovarne altri http://it.answers.yahoo.com/question/index?qid=20080929172718AAWzdrk
Seconda risposta
Ecco alcune storie di alcuni ebrei realmente accaduta per farvi rivivere gli attimi dell’olocausto.
Il 15 novembre come tutti gli altri giorni entrai in classe e mi diressi verso il mio banco ed ebbi la sensazione che i miei compagni mi osservassero in modo insolito.L’insegnante fece l’appello, ma non chiamò il mio nome; soltanto alla fine mi disse che dovevo uscire e alla mia domanda: ’Perché? Cosa ho fatto?’ Mi rispose : ‘Perché sei ebreo’.Mi sentii smarrito, provavo rabbia e mi rendevo conto che stavo subendo una terribile ingiustizia. Ero stato educato all’amore per lo studio e mia madre non tralasciava occasione per ricordarmi che riuscire nello studio era il mezzo per riuscire nella vita e pensai subito alle sue parole. Andai con il pensiero al mio futuro e mi vedevo costretto a dover svolgere i lavori più umili per vivere. E poi gli amici. Erano tutti lì in quella classe. Avrei potuto averli ancora come amici? No, non fu possibile. Non è mai arrivata una telefonata di un genitore per avere notizie. Tutti spariti. Ci sarà pure stato qualcuno che non era fascista, eppure nessuno ha mai mostrato indignazione per quello che stava accadendo ma neppure solidarietà. Evidentemente era una cosa che non riguardava la gente,ma riguardava gli altri e gli altri eravamo noi Ebrei.
Tom Lantos nacque a Budapest nel 1928, figlio unico di una coppia ebrea ungherese; la sua famiglia era ben assimilata nella cultura ungherese, ma Tom ricorda di aver vissuto nel terrore costante di ciò che sarebbe potuto accadere a loro e a gli altri ebrei se i tedeschi avessero invaso l’Ungheria.
Quando, nel marzo del 1944, i tedeschi invasero l’Ungheria Tom aveva solo 16 anni; egli si unì alla resistenza clandestina, ma fu presto catturato e costretto ai lavori forzati, in particolare alla riparazione di un ponte bombardato dagli aerei alleati. Tom riuscì a fuggire ed iniziò a lavorare nell’organizzazione clandestina del gruppo di Raoul Wallemberg, distribuendo documenti diplomatici ed aiuti materiali agli ebrei di Budapest. Nel gennaio del 1945 Tom fu liberato dalle truppe sovietiche.
Anche suo padre sopravvisse alla Shoah, ma per sua madre non fu così.
Tom si trasferì negli Stati Uniti, dove sposò un’amica d’infanzia, Annette. Nel 1980, dopo aver insegnato economia per trent’anni, fu eletto dalla Camera dei Deputati degli Stati Uniti dove sta ancora lavorando dopo essere stato rieletto nove volte. Lui e Annette hanno due figlie e diciassette nipote.
Sono riuscito a trovare anche un libro non raccontato e scritto da
ALBA VALECH il titolo è “A29024”
Io ho scelto la testimonianza di Mario Spizzichino, sopravvissuto ad Auschwitz, a Sosnowitz e a Mauthausen
MARIO SPIZZICHINO
*Il 16 ottobre, in via Baccina il padrone del bar mi avvertì che un gruppo di tedeschi andava in cerca in tutte le case del quartiere degli ebrei. Tornai a casa e dissi a mia madre e a mio fratello di non uscire perché era molto pericoloso e allora presi il tram scendendo a Ponte Garibaldi mi tenni lontano dal ghetto e ai giardinetti di San Carlo al corso in via Arenula mi fermai nel centro di un gruppo di persone che stavano guardando da lontano lungo via di Santa Maria del Pianto. Fu una cosa terrificante: i tedeschi, in assetto di guerra, spingevano coi calci dei loro mitra della povera gente inerme per Teatro Marcello. Potei vedere uomini, donne, vecchi, paralitici, bambini, ammalati, e alcuni con le loro valigie che erano ad aspettare i cani delle SS.
Ebbi paura che nel gruppo qualcuno mi riconoscesse e tagliai la corda e ritornai a casa portando via mia madre e mio fratello.
Decisi di andare verso il quartiere San Paolo dove vi era un mio amico caro, Giuseppe Sala. Questo mio amico aveva un negozio, un magazzino più che altro, di carta da macero. Mi accolse e mi dette subito ospitalità nel suo magazzino dove mi tenne nascosto per qualche giorno a dormire sulle balle di carta.
Non durò a lungo questo nascondiglio, perché una donna urlò che dovevamo andar via perché se no avrebbe chiamato i tedeschi. Per la strada nel quartiere vidi una famiglia disperata che cercava un rifugio per nascondersi. Era la famiglia Di Veroli: marito e moglie con due figli. Li chiamai anche loro, per portarli nel mio nascondiglio. Così anche loro per qualche giorno si nascosero nel magazzino di carta, dormendo sopra le balle di carta. Dopo qualche giorno a causa di quella donna che insisteva dovemmo lasciare questo nascondiglio e andare ognuno per i fatti suoi. Non ci vedemmo più.
Non era rimasto altro che tornare a casa. Qui la signora Assunta ci rassicurò, dicendo di stare tranquilli perché tutti gli inquilini erano bravi e che non avrebbero mai tradito. Quando fui certo che mia madre e mio fratello potevano stare al sicuro mi andai via perché volevo andarmene da Roma. In via Arenula mi incontrai con un mio amico.
Decidemmo di partire verso le montagne in Abruzzo perchè ci informarono che vi erano dei soldati italiani che aspettavano di raggiungere gli alleati. Abbiamo preso un treno e siamo andati ad Avezzano. Ad Avezzano, di notte, un po’ smarriti, abbiamo visto una signora in una casetta e abbiamo chiesto se poteva ospitarci per il fatto che c’era il coprifuoco. Questa donna ci dette ospitalità nelle sue stalle, ci dette anche un bicchiere di latte, poi ci disse che il giorno appresso avremmo dovuto andarcene, perché anche lei aveva paura.
Così la mattina seguente ci indicò dove dovevamo andare per stare tranquilli. Ci indicò di passare verso la montagna e arrivare a un paese, Sant’Aglione, un paesetto piccolo nel quale rimanemmo sbalorditi di vedere i soldati alleati che stavano giocando col pallone in piazza. Erano dei soldati che erano scappati dopo l’8 settembre dai campi di concentramento. Qui, in questa casa dove c’era scritto “Spaccio”, vi era una brava signora con due figlie e il signor Antonio, che era una guardia campestre. Lì ci ospitò, ci dette anche da mangiare e noi ci confidammo che volevamo trovare il modo di incontrarci con le truppe alleate. Lui ci assicurò che il giorno seguente saremmo andati su per le montagne, dove vi era un accampamento di questi soldati. Così il giorno seguente ci siamo messi in marcia; dopo tante ore sulle montagne siamo arrivati nel campeggio, ma non c’era nessuno. La nostra vita continuò per qualche giorno così in questo paesetto di Sant’Aglione: gente buona, che quando passavamo ci offriva da mangiare quello che aveva. Poco tempo dopo Giovanni, il calzolaio di via della Reginella, ci dice che doveva ritornare a Roma.
Ritornando a Roma avevo bisogno di trovare qualche cosa da portare a casa da mia madre. Allora cercai un carrettino in affitto a via dei Vascellari e mi recai presso piazza Istria, da quelle parti, e trovai da compare delle bottiglie usate. Era l’unico modo che potevo trovare per sbarcare il lunario e rivenderle. Una fruttivendola mi disse che aveva molte bottiglie e io le dissi che volevo comprarle, però non avevo tanti soldi. Contrattati insomma un prezzo ma i soldi non mi arrivavano tanto per quanto era la sua richiesta. Allora le lasciai un po’ di soldi, insieme alla mia carta d’identità, che il giorno seguente gliela avrei ripresa. Così fu che il giorno seguente io per andare a prendere queste bottiglie cercai il mio socio, Di Castro. Tante volte abbiamo fatto degli affari insieme; lo cercai all’isola Tiberina e lo chiamai di venire con me. Ho anche rimorso perché lo pregai tanto di venire a fare questo affare insieme. Così prendemmo un carrettino e andammo su. Però passando per via Goito, fui fermato da un agente di pubblica sicurezza, proprio davanti alla Questura e vi era uno della Vai, la polizia che aveva aderito alla Repubblica sociale. E mi disse: un momento, datemi i documenti. Io col mio compagno dissi: dagli te i documenti, ma anche lui non li aveva. Ma poi pensai: può darsi che sia un po’ umano e comprensivo, insomma, di quello sta succedendo. Gli dissi che noi eravamo ebrei. E lui disse: soltanto un momento per identificarvi. In quel momento, quando entrò dentro il portone, ci prese a schiaffi e ci disse: sporchi giudii, e da lì cominciò il mio calvario.
Dentro il carcere trovai altri due miei amici, Angelo Vivanti e Raffaele Terracina, così lì dopo alcuni giorni fummo portati a Regina Coeli, al sesto braccio, dove si sentivano lamentele, spari, eccetera. Altri compagni miei trovai dentro al carcere, compagni di scuola, Davide Moresco, Anselmo Calò e altre persone.
Dopo poco tempo, alcuni giorni, ci chiamarono all’appello fuori dalle celle, tutti inquadrati, ammanettati. Fecero l’appello e uscimmo dal carcere. C’erano dei pullman ad aspettarci. In quel momento un altro pullman dietro noi arrivò: erano donne e bambini che erano stati catturati e portati al carcere minorile di Porta Portese. Queste famiglie ci raggiunsero coi loro mariti, i figli, eccetera e lì cominciò il nostro calvario. Da lì ci hanno messo in cammino per giorni e giorni su questi pullman con una guardia di sicurezza e i fascisti che ci facevano da scorta. Arrivammo al carcere di Castelfranco Bolognese. Qui passammo qualche nottata e poi riprendemmo il cammino, verso il campo di concentramento Fossoli di Carpi. Vi erano già tante persone là, che erano già state prese prima di noi, come le sorelle Di Veroli, Silvia e Giuditta Di Veroli e altre persone. Qui incontrai un zio mio, Alberto Spizzichino, fratello di mio padre, il quale mi raccontò di essere stato preso dalla banda Pollastrini, bastonato a Palazzo Braschi e poi dato in mano ai tedeschi. E qui mio zio un po’ mi abbracciò e mi disse: figlio caro, se ti riesce di scappare, scappa via perché non sappiamo più che fine facciamo.
In questo campo c’erano anche dei carabinieri di servizio ma qualcheduno aveva pure il coraggio di scappare perché non ce la faceva a fare la sorveglianza e della povera gente, delle povere creature, dei poveri ragazzi che stavano in questo campo.
Io lavoravo con una ditta di Carpi a fare il muratore, aiutavo come apprendista, e mi dissero che se uno di noi tentava di fuggire avrebbero ucciso dieci persone. Avevo molte possibilità di scappare ma non avevo il coraggio se poi avrebbero ammazzato dieci persone per colpa mia. Così seguii la corrente.
Un giorno poi vennero dei camion, ci hanno portato a Modena nei vagoni, rinchiusi con donne, bambini, vecchi, dottori, avvocati, di alto e basso ceto, tutti insieme. Ogni vagone c’era un fascista di dietro e le SS davanti ai vagoni che davano ordini. Quando si arrivava nelle pianure aprivano gli sportelli e dovevamo fare i nostri bisogni sotto i binari dei vagoni, sotto il sorriso e le angherie dei fascisti e qualcuno che diceva: “Se volevate scappare scappate, così facciamo il tirassegno”. Una cosa vergognosa per noi fare i nostri bisogni vicino a donne, uomini, alla meglio, come potevamo. Non c’era altra soluzione. E si riprende il cammino per giorni, quattro, cinque, sei giorni.
Entrati in Austria ci hanno fermato, ci dettero un latte, delle crocerossine, con del semolino caldo. Quello fu un ristoro che insomma, si poteva accettare, dopo tanti giorni dentro ai vagoni chiusi.
Arrivammo ad Auschwitz di notte, si sentivano le urla dei cani, delle lunghe file che cantavano una canzone che non si capiva. Alcuni portavano delle strisce rosse altri vestiti bianchi e azzurri, zebrati, come una zebra. La mattina ci aprirono i vagoni con delle urla “Schnell, alle heraus”, fuori tutti. Là vi erano dei dottori, degli ufficiali vestiti con dei camici bianchi come se fossimo gente da macello e facevano le spartizioni di donne e bambini da una parte e dall’altra, le altre volevano il marito, una cosa straziante. Dovevamo seguire e stare zitti e venivamo bastonati. La nostra sosta a Birkenau fu di pochi minuti e poi ci misero in cammino verso il campo di Auschwitz. Non so se erano due o tre chilometri, dove c’era un cancello dove c’era scritto” Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi. Ci spogliarono tutti nel centro di un Block, tutti nudi e ci dissero di non tenere nulla di nostro che se avessero trovato una fotografia o qualsiasi oggetto ci avrebbero punito severamente.
Ci dissero di entrare dentro ad un posto dove c’era scritto Waschraum, bagno, ma non sapevamo che quel bagno era a doppio uso. Lì cominciarono prima a rasarci da tutte le parti del corpo, dopo fare il bagno con acqua bollente e acqua gelata. Appena fuori ci fecero il numero sul braccio a ciascuno di noi. Io divenni il numero 180098. Da lì avevamo un numero e un’etichetta sopra ogni vestito con la stella di Davide. Sulla stella, vicino, vi era il numero che noi portavamo sopra il braccio. Dopo aver fatto la quarantena fui messo al servizio interno del campo, portando contenitori, da mangiare.
Al campo le prime botte con malvagità le ebbi da un kapò perché scendendo dalle scale voleva che andavo più svelto. Così dopo alcuni giorni, qualche mese, ci trasferirono. Mi separai da mio zio ad Auschwitz, non lo rividi più. Con i camion ci portarono a una certa distanza da Auschwitz, a Sosnowitz. Qui a Sosnowitz abbiamo passato le più brutte giornate. Ci facevano lavorare notte e giorno in una fabbrica bellica dove si costruivano delle granate per bombe. La mattina quando si usciva dal campo dovevamo cantare gli inni nazisti, se qualcuno non cantava veniva tempestato di percosse. Così all’entrata e così all’uscita.
Un giorno, si avvicina Natale del ’44, si sentono già le cannonate dei russi e allora aspettavamo la liberazione. Ma non fu così. Un giorno un gruppi di russi tentarono la fuga, e due di loro furono presi. In quel momento in mezzo al campo vi erano degli alberi per festeggiare il Natale. Questi due russi li hanno messi su un tavolone, dove hanno piazzato la forca e noi dovevamo assistere a questa impiccagione di questi due sventurati perché avevano tentato la fuga. Il capoblocco, che era un criminale tedesco internato, mentre gli mette la corda al collo li prese a schiaffi, che anche l’ufficiale deplorò questo fatto. Ecco un giorno, una mattina, una campanella suona: tutti fuori, prepararsi quello che avevamo e prendere la marcia, una marcia forzata. In diversi villaggi e in qualche città, quando passavamo, alcuni giovani ci gettavano addosso dei sassi, strillando “Maledetti ebrei”. Queste sono parole sentite molte volte, qualche volta abbiamo incontrato anche qualche gruppo di soldati italiani che rimanevano impressionati dal fatto che camminavamo: eravamo degli scheletri umani che camminavano. Nelle città ci facevano andare piano ma quando si arrivava nei boschi chi non ce la faceva gli sparavano un colpo. Anch’io stavo per fare la stessa fine. Molte volte pensavo di camminare su uno straccio o qualche cosa sotto i piedi invece era un nostro compagno di sventura che cadeva in terra, non aveva più forza di camminare e veniva spacciato.
Diverse soste abbiamo fatto: una volta mi ricordo a una scuola, dei banchetti, di notte, come scolari. Sempre guardati. Un’altra volta un teatro, un’altra volta in una fattoria, un’altra volta in un mattatoio. Arrivammo in una città. Qui siamo ancora rimontati sopra dei vagoni bestiame e rinchiusi dentro, 40, 50 persone che ci battevamo uno con l’altro per stare più larghi.
Un giorno un grande bombardamento ci prese in pieno sulle rotaie dei nostri vagoni, balzavamo da una parte all’altra e pregavamo Dio che qualche bomba cadesse sopra di noi per farla finita con questa vita. Arrivammo a Mauthausen. Aperti i vagoni molti compagni nostri erano rimasti lì morti in quella stazione. Così vidi anche il mio compagno di scuola Davide Moscati, che non ebbe più la forza di rialzarsi.
Prendemmo a camminare su per la collina per arrivare su a Mauthausen. Mentre stavo per cadere Lungarino detto Vittorio Piazza mi alzò in tempo per non farmi sparare dalle SS. Arrivammo alla fortezza di Mauthausen. Lì ci spogliarono, ci dettero un nuovo numero, ci rimandarono al bagno, ci fecero dei segni, che non sapevamo dove dovevamo andare, e ci portarono alla baracca della quarantena. Lì dentro tutti sul pavimento messi testa e piedi e straziati dai dolori che avevamo: un kapò con una cinta e con bastoni ci tempestò di botte camminando sopra di qualsiasi persona che strillava, che si lamentava, dicendo: Ruhe! Silenzio! Ecco un’altra nuova selezione nella quale anch’io fui selezionato. Ero ridotto così malamente che fui portato nel Revier, il campo di sotto, vicino alla scala della morte. Lì vi si entrava vivi e si usciva morti. Ebbi modo di vedere tanti poveri detenuti deportati che portavano su le pietre in questa scala della morte di 186 scalini. Quando uno portava una pietra più piccola gli davano un calcio, e lo buttavano giù e sotto era un macello di ossa rotte e di sangue. Cercammo molte volte di uscire da questa baracca perché vedevo che quella era la mia fine. Mi incontrai con una persona, mi guardava, mi si abbraccicava ma non sapevo chi era. Era il mio excognato. Settimio Di Veroli, detto il Milanese perché era nato a Milano. Stentai molto a riconoscerlo perché eravamo irriconoscibili uno con l’altro. Talmente scheletriti eppure camminavamo, non so come avevamo questa forza di camminare.
Un giorno potei anche rivedere il mio amico, Teo Ducci, di Firenze, che serviva al meglio chiunque poteva avere bisogno delle sue cure come infermiere. Poi un altro giorno ebbi una grande bastonata sulla gamba sinistra e mi venne una grande suppurazione sulla gamba. Lì c’era il dottor Calore di Milano. Il dottor Calore era un grande chirurgo che era stato deportato per politica e mi disse che se volevo salvare la gamba bisognava fare un intervento. Mi tagliò alla meglio come poteva, e mi levò tutto quel pus che era nella gamba, che mi si era talmente gonfiata che non ce la facevo a tenerla. Poi incontrai un altro amico, Angelo Salmoni. Mi si abbraccicò e diceva che ormai gli americani stavano vicini. Un giorno -rammento la dissenteria- trovai un pezzo di carbone per potermi mangiare questo carbone da stufa per stringermi la dissenteria. Ma un kapò mi ha visto, mi ha dato tante di quelle bastonate e mi ha portato fuori dicendomi “Morgen Krematorium”; domani mattina al crematorio. Invece non so come è stato che il sabato, lo ricordo proprio come un sogno, sentii degli strilli, dei canti: “Americani, americani!”.
Il giorno appresso mi son trovato in un altro ospedale, a Gusen. I letti, che erano a castello, erano stati tagliati e separati uno dall’altro con delle lenzuola candide, bianche, e avevano i cuscini: lì vidi qualche compagno mio di Rodi che era vicino a me e cercava di darmi la forza di resistere.
Gli americani subito ci dettero medicinali, viveri, amore e senso di solidarietà. Eravamo ridotti in pochi; tanti dei nostri erano morti in quella sorte maledetta e i vivi assomigliano a morti. Così dopo poco tempo a Gusen ci trasferimmo un’altra volta a Mauthausen. Qui incontrai un mio amico, Vito, che aveva paura di abbraccicarmi. Come dire: che, abbraccico un morto che cammina? Mi portò dentro una baracca e mi rividi con i miei compagni: Alberto Mieli, Giacomo Moscati e Raimondo.
Il mio cervello era ridotto come quello di un bambino, raccoglievo delle cose inutili per terra, con una sacchetta. Anzi, a Raimondo gli detti un vasetto e gli disse che era bello e lo doveva regalare alla sua fidanzata quando ritornava.
Io ero molto appassionato di musica, “Speranze perdute”, e avevo molte sigarette che avevo chiesto agli americani ma io non fumavo mai, non ho mai fumato. Andai da Chicco Calò, Raimondo che avevano trovato dentro la baracca una chitarra e dissi loro: suonatemi “Speranze perdute” e vi regalo tutte queste sigarette. Loro accordarono e mi suonarono “Speranze perdute” e i piangendo sentivo questa musica che stava nel mio cuore.*
La cosa che mi ha più colpito è stato che Mario ma come penso tutti gli altri credevano che fosse un sogno quando arrivarono gli americani a salvarli.
THOMAS GEVE
Sono nato a Stettino in Polonia, nell’ottobre del 1929. Avevo tre anni quando Hitler salì al potere.Alla fine del 1938 mio padre, non potendo più esercitare la professione di medico , in quanto ebreo si trasferì in Inghelterra.
Nonostante ripetuti tentativi io e mia madre non riuscimmo a raggiungerlo.Nel 1942 , quando tutte le scuole ebraiche furono chiuse trovai lavoro al cimitero ebraico prima come giardiniere e poi come becchino.
Nel 1943 venni arrestato una prima volta, e fui subito liberato grazie al fatto che lavoravo.Ma a giugno arrivò un secondo arresto che mi costò la deportazione ad Auschwitz insieme a mia madre. Ma subito ci separarono e io non la vidi mai più.
Qual’era il destino dei bambini nei campi di concentramento?
Potevano salversi solo quelli cje apparivano più grandi della loro età o se mentivano,per essere inclusi tra gli adulti idonei al lavoro.E questa fu la mia fortuna apparire più grande della loro età e venir destinato al mestiere del muratore.E’ questa che mi ha salvato la vita.
Come naquero i suoi disegni e come li relizzò e a chi erano rivolti?
Io ero prigioniero nel campo Buchenwald che venne liberato dai soldati americani l’11 aprile 1945. Ero in condizioni davvero estreme , malato e troppo malridotto per lasciare la mia baracca. Dovetti rimanere lì più di un mese per recuperare le forze.
Fu proprio in quel periodo anche fossero le bucce delle patate o del pane ammuffito , che magari qualcuno aveva nascosto , significava avere a disposizione qualche caloria in più quindi avere qualche speranza in più di sopravvivere .
La mostra dei suoi disegni si trova a Torino in via Valdocco 4/A. Biglietteria tel: 011 4420780 e mail : info@museodiffusotorino.it . Biglietto d’ingresso 5 euro
Testimonianza:
Sono Natalia Tedeschi, sono nata a Genova il 19 giugno del 1922. Sono di famiglia ebrea. I miei fratelli, al momento delle leggi razziali, erano tutti e tre all’università… Io nel 1938 avevo sedici anni ho dovuto interrompere gli studi.
Un giorno, mentre eravamo lì a Saluzzo, sono scesa nella hall di questo piccolissimo albergo, dove eravamo, e sono arrivati due SS italiani. Sento che dicono “Siamo venuti ad arrestare quella famiglia di ebrei”. Io sono corsa immediatamente ad avvisare mia mamma e mia nonna… Ancora adesso penso che, forse, sapendo che eravamo lì, penso, ma con molto ottimismo, solo adesso, che forse hanno voluto darci il tempo di metterci in salvo. Siamo andate a Sampéyre, in Val Varaita. Questo è successo nel febbraio del ’44. Noi siamo state a Sampéyre, con mia mamma e mia nonna, anche lì in un piccolo alberghetto per un periodo di tempo, poi sono arrivati tutti i partigiani su e noi, più che mai, ci sentivamo tranquille. Da fondovalle sono arrivati i tedeschi, hanno cominciato a risalire la vallata. Cosa potevamo fare? Ci siamo portate, sempre con i partigiani, ancora un po’ più verso il confine con la Francia, però lì c’è stata una carissima persona, un certo Flaminio Gazzano, guardia di finanza, che ci aveva viste a Saluzzo e ci ha denunciate. Ci ha denunciate ai tedeschi per la somma di cinquemila lire. Avevamo carte false, ma appena fatte, e poi praticamente non avevamo mica niente da nascondere noi, siamo stati un po’ prese anche alla sprovvista. Appena arrivato, il comando tedesco ci ha detto” Tenetevi a disposizione, che all’una di questa notte veniamo a prendervi”.
Ci hanno portate a Venasca, dove siamo state per tre, quattro giorni, non ricordo esattamente, ospiti delle scuole di Venasca. Di notte dormivamo sui tavolacci. Una mattina, ci hanno caricate su un treno e ci hanno portate all’Albergo Nazionale di Torino, dove ci hanno spogliato di quelle poche cose preziose che avevamo, perché avevamo ben poco, e dopo ci hanno trasferito alle carceri, alle Nuove di Torino, dove siamo state per venti giorni. Io ero in cella con mia mamma e mia nonna. In quelle celle tremende, tremende perché eravamo proprio in stretta sorveglianza e in sola compagnia delle cimici… Ce n’erano a profusione, specialmente di notte.
Così sono passati venti giorni, poi un mattino ci hanno caricato su un pullman – in realtà non era un pullman era un camion – ci hanno portate a Porta Nuova, da Porta Nuova, su un treno, siamo arrivate a Fossoli, nel campo di raccolta di Fossoli. Questo è avvenuto, io penso, i primissimi di marzo. Noi eravamo nel campo dei razziali, e siamo state lì venti giorni. Avevamo ancora i nostri vestiti, le nostre cose, la mattina ci hanno caricate su dei carri bestiame… Partenza con destinazione ignota, non si sapeva assolutamente. Però, da quel poco che avevamo saputo, si pensava di andare in Germania, in un campo di lavoro, perché tutti, senza sapere niente, dicevano che la nostra fine sarebbe stata quella. Era il 16 maggio, ci hanno portato alla stazione di Carpi e lì è stata l’ultima volta che ho visto mia nonna, perché il suo cognome da sposata era Sacerdote, mentre noi eravamo Tedeschi, così è salita nel vagone prima e non l’ho più vista… Io sono rimasta con la mia mamma… È stato il Transport più lungo che c’è stato, perché siamo partite il 16 maggio e io sono arrivata a Birkenau il 23 maggio, il più lungo di tutti, non so per quale motivo, abbiamo impiegato ben otto notti e sette giorni. Eravamo tutti stipati nel vagone, saremmo stati una ottantina.
Siamo arrivate di notte e siamo state nei vagoni fino al mattino dopo. Quando poi hanno aperto il portellone del carro bestiame, da cui siamo scese, tutti questi ordini in tedesco, che non si capivano. Abbiamo solo capito che dovevamo lasciare lì tutti i nostri bagagli, perché qualcuno, forse qualche interprete o qualcuno dei prigionieri che sapeva il tedesco, aveva capito che le nostre cose ci sarebbero poi state restituite in un secondo tempo. E noi, anche lì, ci abbiamo creduto. E poi hanno diviso immediatamente le persone giovani, le persone meno giovani, gli uomini dalle donne, selezionando quelli che potevano entrare in campo o meno. Io ero sotto braccio a mia mamma… La mia mamma, che non aveva ancora 50 anni, ne aveva 49, mi è stata proprio strappata via dal braccio, è una sensazione che provo ancora adesso… Sento questo braccio che trema, che mi viene portato via… Io sono andata nel gruppo di quelle che entravano in campo e mia mamma, senza che io me ne rendessi conto, è stata divisa.
Quando poi sono entrata in campo, dopo che ci hanno tolto completamente tutto, anche i vestiti che avevamo addosso, tutto completamente, quel poco che c’era rimasto… Ci hanno tatuato il numero sul braccio, il mio numero è: A5404, e siamo entrati in campo. Io, appena entrata in campo, dopo pochissimo, forse il giorno dopo, no il giorno stesso, vedo nel campo mia cugina Giuliana Tedeschi, che era stata deportata con mio fratello Vittorio, mio fratello che… Era nei partigiani ed è stato denunciato da un amico suo, che era nei partigiani con lui, e l’ha denunciato come ebreo. Poi destino ha voluto che lui sia morto il 25 aprile, il giorno della liberazione di Mauthausen, e questo amico che l’ha denunciato, non so per quali motivi, non l’ho mai voluto sapere, è morto a sua volta a Mauthausen, evidentemente qualcuno ha denunciato anche lui.
La vestizione è stata una cosa tragica… I vestiti erano stracci, non avevamo divise, assolutamente niente. Io, per tutto il tempo che sono stata a Birkenau, ho sempre avuto una scarpa e uno zoccolo, non ho mai avuto un paio di scarpe uguali. I capelli li han poi tagliati dopo.
Come sono entrata nel campo, mi avevano detto tutte: ricordati di morire nel campo, se devi morire, ma non passare dal Revier, perché se vai al Revier non esci più. E io, disgraziatamente, ho avuto un’infezione alla gamba, che non camminavo più, sono dovuta andare al Revier per forza. Durante quei due o tre giorni che ero lì, il nostro lavoro era stato quello di trasportare pietre. Trasportavamo le pietre da un mucchio, lo portavamo lontano nell’altro mucchio, poi viceversa… Ad ogni modo, sono entrata nel Revier. Sono stata seduta su una specie di sedia, con la gamba alzata, e ho fatto per terra una pozza di sangue, di pus, di tutto quanto… Mi hanno messo intorno alla caviglia della carta igienica, poi mi hanno mandato nuda come un verme in quei castelli di legno con una che aveva il tifo. E noi, tutte e due nude per dieci giorni, nude completamente, con questa, che aveva il tifo e naturalmente si sporcava in continuazione, e un’unica coperta. Sono stata al Revier immobile per quaranta giorni… E per quaranta giorni, ogni mattina entrava Mengele. Sai chi era Mengele? Era l’angelo della morte: un uomo bellissimo, elegantissimo, col frustino in mano, che indicava nei vari castelli chi doveva andare alla selezione. Andare alla selezione voleva dire che tu eri segnata, eri destinata ad andare ai forni crematori: ti mettevano in un blocco particolare, ti davano un supplemento di vitto, poi dopo c’era un… Sentivi tutte queste creature caricate sul camion che urlavano perché sapevano che andavano a morire… Uscendo dal Revier, non avevo più forze, non potevo stare in piedi, quando mi sedevo per terra se mi rialzavo tutte le ossa scricchiolavano. Entrata nel campo, dopo aver saputo che mia mamma e mia nonna erano passate per il camino – non l’ho saputo subito, ma dopo essere uscita dal Revier – ho pianto un giorno e una notte consecutivi, da allora non so più piangere, assolutamente.
Sono andata poi a lavorare nelle cucine. Il lavoro consisteva – era un lavoro anche abbastanza fortunato – nel prendere i bidoni di zuppa e portar da mangiare al Revier. Io non sono mai uscita dal campo a lavorare, e quella è stata una fortuna… Andando nel Revier, una delle cose, un ricordo terribile… C’erano delle donne che avevano partorito durante la notte e c’erano tutti quegli esserini messi in fila, su una specie di ripiano, erano tutti lì che si muovevano… Qualcuno si muoveva ancora, non erano ancora morti, si vede che qualcuno era nato dopo oppure era più forte degli altri e stentava a morire. C’erano tutti quei cadaverini di bambini, lì nell’anti-Revier, diciamo.
A novembre ci fu un appello particolare. Siamo state in appello fino a notte. Io avevo anche la febbre, avevo un febbrone… Poi a un certo momento ci hanno avviate e ci hanno detto che potevamo camminare incolonnate, non sapevamo dove saremmo andate, se ai forni crematori o in un altro campo. Siamo arrivate a Bergen Belsen… Mi ricordo che pioveva, non c’era la baracca per noi, così ci siamo buttate per terra a dormire sotto la pioggia, abbiamo dormito lì. Solo successivamente ci è stata assegnata la baracca. A Bergen Belsen non abbiamo lavorato, sono stata poco in quel campo. Cercavano personale per andare a lavorare in una fabbrica, a Dessau, che è un sottocampo di Buchenwald. In questa fabbrica, si faceva del materiale, dei pezzi di ricambio per aerei, pezzi di ricambio, bulloni, cose così, e si lavorava in gruppi da venticinque, venticinque di giorno e venticinque di notte, dalle sei del mattino alla sei di sera, e viceversa. All’interno di questo campo, comunque, il trattamento era leggermente più umano, benché noi si parlasse solo e sempre di mangiare e avevamo un unico argomento e un unico sogno, sempre quello.
Però devo dire una cosa, che la fame è terribile, perché chi non ha provato non può rendersi conto, è inutile che uno dica. Però la sete è peggio. La sete ti fa impazzire, ti porta proprio… La fame è terribile, perché noi avevamo sempre e solo quell’argomento, raccontarti e scambiarti le ricette, di cosa faceva la mamma, di cosa faceva la nonna, di cosa facevamo noi. Era solo quello, c’era un discorso unico, solo quello. Ho già raccontato in varie occasioni che una mia carissima compagna di sventura, Anna Cassutto, moglie del rabbino Cassutto di Firenze, aveva lasciato a Firenze, quando l’arrestarono con il marito, quattro bambini. L’ultima bimba aveva 40 giorni… Non l’ha più trovata… I nonni sono riusciti a portare i tre bambini più grandi in Israele. Lei è stata deportata col marito, che non è più tornato… Lui era oculista ed era anche rabbino di Firenze… Naturalmente una delazione, anche lì… E quando io le ho chiesto “Anna, ma cosa preferisci, un piatto di pastasciutta, o vedere i tuoi bambini?”. E lei dice “Un piatto di pastasciutta”. Guardate che cose… Il colmo… Questa è una cosa che mi è proprio sempre rimasta. Racconto ancora questo… Non riguarda me, ma è una cosa tragica… Anna è poi riuscita ad andare in Israele – allora era ancora Palestina credo – e ha ritrovato i suoi bambini; lavorava in un ospedale… Un attentato arabo sul pullman ed è saltata per aria… Portare a casa la pelle, dopo quella tragedia che c’è stata, e morire così poverina…
Comunque… Una mattina che dovevamo finire il turno, c’era già stato un cannoneggiamento russo, come è successo anche ad Auschwitz, ci hanno spostati. C’era già l’avanzata russa. Ci hanno portato a Terezin. Io poi ho avuto anche il tifo petecchiale, ho un ricordo terribile, di quella febbre che ho avuto, perché sono arrivata proprio al delirio.
E poi… Il 6 di maggio è avvenuta la liberazione. Io ho pensato. “Ce l’ho fatta fino adesso e non ce la faccio più”. Allora mi sono imposta di… Quando stavo leggermente meglio, cercavo di fare qualche passo tutti i giorni, due passi, poi il terzo giorno farne tre, farne quattro, perché… Sono arrivata alla liberazione, perché mi avevano detto “Ci sono i russi, siamo liberi… Ci sono i russi e siamo liberi!”. Ma poi, quando eravamo lì, nessuno veniva a prenderci, nessuno sapeva della nostra esistenza. Però i francesi erano venuti a prendere i francesi, anche i belgi, ma gli italiani niente. Allora, appena stavo un pochino meglio, in quattro siamo partite e siamo andate fino a Praga, con mezzi di fortuna, a piedi, siamo andate alla casa d’Italia, dove ci hanno accolte, ci hanno dato anche qualche soldo… Abbiamo girato un po’ per Praga ed è venuta fuori tutta la nostra femminilità, perché con quei due soldi che avevamo, siamo andate a comprare il rossetto… Puoi immaginare: in quelle condizioni, magre, brutte, smunte, senza capelli, abbiamo comprato il rossetto. Che cose… Nelle cose tragiche, c’è persino una nota comica, perché è comica sì, in quelle condizioni…
Abbiamo cominciare a lanciare degli appelli, via radio, però non abbiamo mai avuto risposta. Allora un giorno abbiamo detto “Cosa facciamo?”, “Andiamo via!”, “Andiamo fino a Vienna? Da Vienna ci sarà qualche mezzo, qualcosa che ci porti in Italia…”. Siamo state poi in case devastate, altri quaranta giorni lì, ma nessuno veniva a prenderci… Allora abbiamo deciso, abbiamo preso una strada una mattina e ce ne siamo andate e siamo arrivate a piedi fino in Ungheria. Di lì siamo arrivati poi, con un treno dei partigiani, fino al confine con la Jugoslavia, poi siamo arrivati a Lubiana. Ad ogni modo siamo arrivate a Trieste, e a Trieste siamo andate alla comunità ebraica, dove ci hanno accolte e ci hanno messo a disposizione delle brande, ma noi non eravamo più abituate a dormire nelle brande, così abbiamo dormito per terra. Poi con tutti i mezzi di fortuna che ho trovato ci ho impiegato otto giorni sono arrivata a Torino. E ho saputo lì che mio fratello era mancato il 25 aprile del 45, il giorno della liberazione.
Io volevo parlarvi di Boris Pahor.
Boris Pahor amava dire che nessuno è profeta in patria.
Boris nasce nel 1913 in Slovenia e fu rinchiuso nel campo di Natzweiler-Struthof .
Dopo essere stato rinchiuso nel campo scrisse un libro che chiamò Necropoli.
Nonostante il libro fu scritto quaranta anni fa venne conosciuto e riconosciuto come opera letterearia l’anno scorso.
La cosa positiva per questa persona è che riuscì a guadagnarsi un posto nella letteratura Italiana a novantacinque anni.
Eppure il resto del mondo conosceva e apprezzava già da anni Boris Pahor per le sue prese di posizione a favore della difesa della dignità umana e delle identità nazionali e culturali.
Di Pahor è ammirevole la descrizione del male assoluto, non fine a sé stessa, ma raccontata con lucidità affinché quello che è successo non venga dimenticato e possa servire come prevenzione per generazioni future.
Le sue opere, scritte in sloveno, sono state tradotte in francese, tedesco, inglese, serbo-croato, spagnolo, catalano e finlandese, oltre che in italiano.
Nel 1992 ha ricevuto il Premio Prešeren, la maggior onorificenza slovena culturale. Nel 2003 gli è stato assegnato il San Giusto d’Oro, premio dato dai cronisti triestini a un triestino che ha reso onore alla città in Italia e nel mondo.
Nel 2007 in Francia è stato insignito della Legione d’Onore. Boris arrivò alla candidatura per il nobel per la letteratura.
Nel 1920, quando ha sette anni, assiste all’incendio del Narodni Dom (Casa della Cultura), la sede centrale delle organizzazioni della comunità slovena di Trieste.
Da un giorno all’altro vengono chiusi sia le scuole che i giornali sloveni. Perfino parlare sloveno diventa proibito. E, cosa ancora più assurda, anche i cognomi degli sloveni vengono cambiati: non solo i cognomi dei vivi, ma anche dei morti sulle lapidi dei cimiteri.
Tutto doveva essere italianizzato. Dopo essersi laureato all’Università di Padova in Lettere, Pahor torna a Trieste dove si dedica all’insegnamento della letteratura italiana.
Nel 1940 viene arruolato nell’esercito italiano e mandato sul fronte in Libia.
Dopo l’armistizio dell’otto settembre torna a Trieste, dove decide di unirsi alle truppe partigiane slovene.
Nel 1944 viene catturato dai nazisti e internato in vari campi di concentramento in Francia e Germania (Dachau, Natzweiler-Struthof, Dora Mittelbau, Harzungen e Bergen-Belsen).
Il libro è il doloroso racconto di un ex detenuto che, mescolato in mezzo a una folla anonima di turisti, rivista il campo di concentramento dove visse e soffrì venti anni prima.
Finita la guerra Pahor torna nella sua città natale e fonda la rivista Zaliv (Il golfo), attenta al processo di democratizzazione della Slovenia.
Io ho trovato la storia di un signore di nome Tom Lantos. Ecco la sua storia.
Tom Lantos nacque a Budapest nel 1928, figlio unico di una coppia ebrea ungherese; la sua famiglia era ben assimilata nella cultura ungherese, ma Tom ricorda di aver vissuto nel terrore costante di ciò che sarebbe potuto accadere a loro e a gli altri ebrei se i tedeschi avessero invaso l’Ungheria.
Quando, nel marzo del 1944, i tedeschi invasero l’Ungheria Tom aveva solo 16 anni; egli si unì alla resistenza clandestina, ma fu presto catturato e costretto ai lavori forzati, in particolare alla riparazione di un ponte bombardato dagli aerei alleati. Tom riuscì a fuggire ed iniziò a lavorare nell’organizzazione clandestina del gruppo di Raoul Wallemberg, distribuendo documenti diplomatici ed aiuti materiali agli ebrei di Budapest. Nel gennaio del 1945 Tom fu liberato dalle truppe sovietiche.
Anche suo padre sopravvisse alla Shoah, ma per sua madre non fu così.
Tom si trasferì negli Stati Uniti, dove sposò un’amica d’infanzia, Annette. Nel 1980, dopo aver insegnato economia per trent’anni, fu eletto dalla Camera dei Deputati degli Stati Uniti dove sta ancora lavorando dopo essere stato rieletto nove volte. Lui e Annette hanno due figlie e diciassette nipoti.
Ecco a voi alcune frasi scritte da lui:“Eri un animale braccato 24 ore al giorno”.
“Il sadismo, la crudeltà, l’irrazionalità dei nazisti tedeschi e ungheresi… l’idea che avrebbero potuto guadagnare credito se si fossero comportati in modo più civile… non era presente in realtà perché il loro odio era così cieco”.
“Non riesco a spiegare la Shoah né con la ragione né con le emozioni né con l’intelletto. Non riesco, non riesco a trovare una collocazione per un ente supremo in questo incubo”.(Tom).
Mi ha colpito in particolar modo la seconda, perchè secondo me riesce a rispecchiare la realtà dei fatti.
Testimonianza di un ebreo di Firenze : Nedo Fiano (sopravvissuto ad Auschwitz)
Cio’ che ha connotato tutta la mia vita è stata la mia deportazione nei campi di sterminio nazisti. Con me ad Auschwitz finì tutta la mia famiglia, vennero sterminati tutti. A diciotto anni sono rimasto orfano e quest’esperienza così devastante ha fatto di me un uomo diverso, un testimone per tutta la vita». Nedo Fiano al momento della promulgazione delle leggi razziali viveva a Firenze. Venne arrestato da italiani il 6 febbraio del 1944, fu rinchiuso nel carcere di Firenze, da lì condotto al campo di Fossoli. Deportato ad Auschwitz il 16 maggio del 1944, matricola A 5405
In che periodo venne deportato ad Auschwitz?
«Fui catturato insieme a mio padre e nel maggio del 1944 deportato con lui ad Auschwitz. Arrivammo a destinazione il 23 maggio. Quando io e papà siamo arrivati, appena scesi dal convoglio, siamo passati subito dalla selezione: da una parte la camera gas e il forno, dall’altra il campo. Noi non siamo andati nella parte del forno. Papà era un uomo splendido, sembrava un ambasciatore. Aveva 54 anni, ma lui ha dichiarato di averne dieci di meno per potersi salvare. Siamo entrati nella quarantena, che era comunque un luogo di morte, le razioni erano dimezzate rispetto al campo, durava circa tre settimane e quando i prigionieri uscivano erano ridotti malissimo. Mi ricordo che siamo entrati in una baracca, dove era il momento della distribuzione della zuppa. Ad Auschwitz non c’erano né forchette, né coltelli, né cucchiai. Dovevamo mangiare mettendo la testa dentro nella ciotola, come del resto non c’era la carta igienica e la mattina ci si doveva pulire con le mani».
Cosa accadde dopo la quarantena?
«Quando fummo dentro la baracca entrò subito dopo un sergente maggiore delle SS, il quale disse: “achtung”, tutti scattarono in piedi, era un ordine. Incominciò a guardarci. Io so cos’è uno sguardo nazista, uno sguardo vitreo, freddo. I nazisti ci guardavano come fossimo stati degli scarafaggi. E come per gli scarafaggi, nessuno prova ritegno a schiacciarli, così era per noi. Il nazista disse che aveva bisogno di qualche interprete. “Chi parla tedesco?” chiese. Ero impietrito, immobile. E proprio quando pensavo che questo esame fosse finito, ho sentito una spinta sulla schiena, una mano che mi mandava avanti a offrire la mia disponibilità d’interprete. Mi sono trovato davanti alla SS, che continuava a fissarmi con lo stesso sguardo. A un certo punto mi chiese “dove sei nato? “. Io risposi “in Italia”, senza guardarlo, con gli occhi verso un punto infinito. “Sì ma dove?”, insistette lui. ” A Firenze”. Non finii neppure di pronunciare Florence, che mi disse: “caro amico, la tua città è bellissima”. Dopo un monologo di dieci minuti mi ha selezionato per il corpo interpreti. Eravamo dei privilegiati, e se io sono qui a parlare forse è anche per questo. Gli interpreti lavoravano sulla banchina d’arrivo della stazione di Auschwitz -Birkenau».
«I convogli ferroviari, i trasporti che portavano gli ebrei allo sterminio si chiamavano “trasporti notte e nebbia”. Pensate a questa definizione poetico letteraria, la definizione più precisa e puntuale e anche la più drammatica. Che cosa puoi immaginare di un tale convoglio? Niente. Un trasporto che non sai dove va. Sulla banchina di Auschwitz abbiamo visto arrivare per mesi ebrei greci, polacchi, ungheresi, italiani. Io ero sulla banchina quando con un convoglio è arrivata anche mia nonna. Era sorda, si guardava in giro senza riuscire a capire dove fosse finita. Io l’ho riconosciuta subito e sono andato ad abbracciarla, cosa peraltro rischiosissima e sono svenuto dall’emozione. I miei compagni allora mi hanno preso e mi hanno messo da una parte, coprendomi con delle foglie. Mi sono ripreso quattro minuti dopo, mia nonna era già finita nella camera a gas».
L’umanità è responsabile della Shoah, come dello stermino dei Curdi e degli Armeni. L’uomo è responsabile. Io ho lavorato sulla banchina della stazione di arrivo ad Auschwitz fino all’ottobre del 1944, guardavo Josef Mengele, simile ad un attore americano, vestito sempre elegante, come ad un galà, che avvicinava ai bambini dava loro carezze e caramelle, quando vedeva due gemellini se li portava via per i suoi esperimenti. Era un uomo. Noi eravamo dei candidati alla morte e lui sceglieva».
Una recente edizione di una famosa enciclopedia riporta alla voce Auschwitz questa definizione: “Luogo di detenzione dove vennero internati gli ebrei per tutta la guerra”. 2milioni e mezzo di morti finiti così. Se questo è il risultato, ci vorrebbe una seconda resistenza, ma non siamo capaci di farla».
Questa che vi racconto è una storia vera.
Ieri andando da mia nonna mi sono ricordata che suo cugino di secondo grado morì in un campo di concentramento e mi feci raccontare la storia.
“ Se non sbaglio era il 1942, io avevo sette anni, la mia famiglia ed io abitavamo in una casetta a Cencenighe, un paesino, in provincia di Belluno.
Un giorno, la cugina di mia madre, venne da noi, piangeva, io mi nascosi in una stanzetta e riuscì ad ascoltare tutto.
Dicevano che mio cugino, si era offerto per andare a combattere in guerra.
La cugina di mia madre continuava a piangere.
Dopo un anno, si venne a conoscere, che mio cugino di secondo grado, venne catturato e rinchiuso in un campo di concentramento.
Alla fine della guerra, si venne a conoscere, che mio cugino, era morto, con le gambe congelate.”
Secondo me questa storia ci dovrebbe far riflettere sulla causa della morte del cugino di mia nonna, perché, morire congelati, ci dovrebbe far capire le condizioni in cui si viveva nei campi di sterminio.
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Testimonianza che ho scelto di:Annamarcella Falco Tedeschi. In seguito alle Leggi antiebraichei gli ebrei dovettero lasciare le scuole pubbliche. Alcune Comunità ebraiche, come quella di Milano, organizzarono scuole per far studiare i propri ragazzi.
Ecco la testimonianza di Annamarcella Falco Tedeschi, studentessa in quegli anni a Milano, nella scuola ebraica di via Eupili.
“Posso dire di essere milanese, benché non sia nata a Milano, ma vi sia arrivata piccolissima da Parma, dove mio padre insegnava diritto ecclesiastico in quell’Università. Ma anche Parma costituiva solo una tappa nella mia famiglia; le mie radici sono frastagliate: mia madre proveniva da un’antica famiglia ebraica ferrarese, i Ravenna, mentre quella di mio padre, Mario Falco, era torinese da molte generazioni, probabilmente proveniente da Gerona in Spagna.
Mio padre iniziò a insegnare all’Università di Milano dalla sua fondazione nel 1924 e da allora la nostra famiglia divenne milanese a tutti gli effetti, mentre i miei ricordi delle prime classi elementari non sono dei più brillanti. Sia io che mia sorella, di cinque anni minore di me, passammo gli anni delle elementari studiando privatamente. In prima media (allora si diceva prima ginnasio) entrai al Ginnasio Manzoni e lì trascorsi cinque ottimi anni. Forse la scuola mi sembrava così bella perché finalmente me l’ero conquistata. Il fatto di essere ebrea non creava la minima discriminazione; c’erano altre bambine ebree in classe: “uscivamo” all’ora di religione e ben presto fu organizzata un’ora sostitutiva di ebraismo a cui partecipavamo noi ragazzini ebrei, magari riunendo varie classi insieme.
La nostra famiglia viveva in quello che sembrava un perfetto equilibrio: mio padre insegnava diritto ecclesiastico, ma era anche consigliere della Comunità Ebraica di Milano; mia madre era vice-presidente dell’Associazione Donne Ebree d’Italia (l’attuale Adei Wizo) e dirigeva un giornaletto per ragazzi “L’Israel dei Ragazzi”, già esistente da molti anni; quanto a me ero molto legata con alcune compagne di classe, naturalmente cattoliche… Tutto proseguì serenamente fino al 1938 quando, quasi di soppiatto, sui giornali cominciarono a fare capolino frecciate antiebraiche e la parola “razza” (uscì una rivista intitolata appunto La difesa della razza) a imitazione di quanto ormai da tempo accadeva nell’alleata Germania. La prima mossa ufficiale si ebbe il 14 luglio con la pubblicazione del “Manifesto della Razza”, opera tra l’altro del professor Nicola Pende che comunicava appunto nella rivista che “gli ebrei non appartenevano alla razza italiana”.
Per noi fu un’estate pesantissima: eravamo in vacanza a San Vito di Cadore e ogni mattina si apriva il giornale con il batticuore. E ogni volta c’era qualche amarezza; va ricordato che cos’erano i giornali a quell’epoca: sotto il fascismo non esisteva la possibilità di opposizione o di critica e il tono di tutta la stampa era identico. Mio padre riceveva lettere e visite incoraggianti da colleghi cattolici: erano i suoi amici antifascisti come lui, (primi tra tutti il professor Piero Calamandrei e il professor Carlo Arturo Jemolo) che gli esprimevano solidarietà. Ma questo non bastava a rasserenarci né a rassicurarci.
Il 5 settembre (eravamo appena rientrati a Milano) la situazione si fece drammatica; il Regio decreto legge n. 1390, pubblicato in quel giorno, era esplicito: da quel momento ai docenti e agli studenti di origine ebraica era vietato accedere alle scuole di ogni ordine e grado. Per la nostra famiglia fu una mazzata tremenda. Mio padre veniva “messo in pensione” e a me veniva precluso l’ingresso a scuola. Ho passato prove durissime nella mia vita, in seguito, ma quella volta mi sembrò che il mondo mi crollasse addosso. Le mie compagne di scuola (la mamma mi aveva detto “aspetta che ti chiamino loro”) non si facevano vive; e – cosa veramente incredibile – anche le più intime sembravano dissolte nel nulla. Quello che è diventato mio marito, Enrico Tedeschi, invece, che frequentava il Ginnasio Parini, ebbe eccezionali manifestazioni di solidarietà in particolare da parte del suo compagno Marco Vercesi, figlio dell’avvocato Galileo Vercesi, uno dei “martiri di Fossoli”.
Nella Comunità ebraica, dopo i primi momenti di sbandamento, si cominciò ad agire: con la collaborazione di numerosi volenterosi “padri di famiglia” iniziò una frenetica corsa con il tempo e con gli spazi per creare le scuole superiori per i ragazzi ebrei; già da alcuni anni funzionavano nelle due villette di via Eupili 6/8, al Sempione, gli asili e le scuole elementari. Il presidente della Comunità, Comandante Federico Jarach, con la stretta collaborazione di mio padre (assessore della stessa), invitò il professor Yoseph Colombo, ex-preside del Liceo Scientifico di Ferrara, e rimasto perciò “disoccupato”, a prendere le redini dell’iniziativa. Nella scuola, oltre che gli spazi, mancava tutto, ma vi erano tanti professori rimasti anch’essi senza lavoro e il miracolo si verificò: il 7 novembre, a due mesi dalla promulgazione delle Leggi Razziali, le scuole medie e superiori iniziarono l’attività.
Ricordo quei primi giorni come giorni di felicità: nonostante tutto ci eravamo riusciti e credo che nessun ragazzo sia mai andato a scuola con la gioia con cui ci andavamo noi; non andavamo a scuola obbligati dai genitori come tutti i ragazzini del mondo, la scuola ce l’eravamo conquistata.
Scoprimmo nuovi orizzonti, stringemmo nuove amicizie: la situazione comune le rendeva più facili. Più tardi vennero organizzati (nelle inesauribili cantine di via Eupili) anche due corsi universitari, uno di chimica ed uno di diritto ed economia, per i quali furono coinvolti docenti universitari di alto livello, e che a guerra finita furono riconosciuti dalle autorità accademiche.
Quanto a me, partecipai brevemente al corso di chimica, poi le vicende tragiche ebbero il sopravvento. Nell’autunno del 1942 fui per alcuni mesi precettata (come molti ragazzi ebrei) come operaia allo “Scatolificio Ambrosiano”, mentre altre ragazze lavorarono in una fabbrica di borracce e i ragazzi furono adibiti alla sezione “orti e giardini” del Comune di Milano. Ma si trattò di episodi di breve durata, travolti prima dai bombardamenti e poi dalle tragiche vicende dell’autunno del 1943.
Personalmente, con la mia famiglia “sfollai” (si diceva così!) a Ferrara nella casa dei nonni. Dopo l’8 settembre (armistizio) la situazione andò precipitando. Mio padre, minato dalle ansie, morì di infarto e al suo funerale, al Cimitero ebraico di Ferrara, il 7 ottobre 1943, erano presenti poco più di una decina di eroiche persone: proprio il giorno precedente era stata fatta una prima retata di ebrei ferraresi tra i quali il rabbino stesso Leone Leoni.
Il seguito della storia mia, di mia madre e mia sorella ha aspetti miracolosi: il professor Jemolo (il grande amico di mio padre), ignaro della sua morte scriveva cartoline che incredibilmente conservo in cui invitava ad andare a Roma dove si sperava che la “liberazione” sarebbe arrivata prima che al nord. Dopo molte esitazioni, partimmo ignare di quanto nel frattempo era avvenuto proprio a Roma e cioè della terribile retata del 16 ottobre.
Nonostante ciò l’accoglienza della famiglia Jemolo (il professore, la moglie e i tre figli) fu stupenda: non ebbero un attimo di esitazione e ci accolsero in casa dichiarando alla portinaia e a chi ci stava intorno che eravamo parenti provenienti da Napoli. Ci fornirono documenti di identità falsi e grazie al loro eroico comportamento, alla loro straordinaria ospitalità e disponibilità vivemmo presso di loro fino al giorno della Liberazione di Roma, avvenuto il 4 giugno 1944″.
Annamarcella Falco Tedeschi
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Testimonianza d allora una ragazzina sopravvisuta alla Shoah.
“Avevo 13 anni nel 1943 e conoscevo da cinque la persecuzione, perché una sera di fine estate del 1938, cinque anni prima, mio papà mi spiegò con dolcezza che non avrei più potuto andare a scuola, in via Ruffini, poiché ero una bambina ebrea e c’erano delle nuove leggi che mi impedivano di continuare la mia vita come prima. Eravamo diventati cittadini “di serie B”. Cominciò una nuova vita, una nuova scuola; sentivo crescere le preoccupazioni, vedevo i visi dei miei familiari intristiti, a volte umiliati da situazioni che non mi venivano spiegate, ma che io intuivo dolorosamente. Dopo l’8 settembre 1943, con l’occupazione tedesca dell’Italia settentrionale, furono le leggi di Norimberga a condannarci. Mio papà decise di mettermi in salvo: mi procurò documenti falsi e mi affidò ad amici eroici che rischiarono la vita per nascondermi. Allora lasciai per sempre la mia casa e i miei nonni. Dopo qualche tempo mio papà ed io cercammo di fuggire in Svizzera. Eravamo in balìa di contrabbandieri esosi e senza scrupoli. Con grande fatica passammo il confine sulle montagne dietro a Viggiù e arrivammo in Svizzera.
Il sogno durò poco: pochi passi in un bosco e ci imbattemmo in una sentinella che ci accompagnò al vicino comando. Là un ufficiale svizzero-tedesco non volle sentire né ragioni, né suppliche e ci rimandò indietro. A 13 anni entrai da sola nel carcere di Varese, piangendo disperatamente. Poi fui a Como; poi a Milano, a San Vittore. Qui ero con mio papà. Il quinto raggio era destinato ai prigionieri ebrei: tutti ammassati in attesa della deportazione annunciata.
Alla fine di gennaio un implacabile appello scandì anche i nostri nomi. Caricati su un camion, attraversammo Milano e fummo portati alla Stazione Centrale, dove nel sotterraneo era pronto per noi un treno merci. Fummo fatti salire a calci e pugni e piombati nei vagoni. Il viaggio durò una settimana. Eravamo ammassati l’uno sull’altro; un secchio per gli escrementi e un po’ di paglia per terra, senza né luce, né acqua. All’alba del 6 febbraio il treno si fermò ad Auschwitz. Ricordo il rumore osceno e assordante degli assassini intorno a noi, i fischi, i latrati; ricordo i comandi e ricordo quando fui separata per sempre da mio papà. Con altre 30 ragazze italiane, spaurite, stupite da questo destino, entrammo nel grande lager femminile di Birkenau. Era una città fantasma: una distesa senza fine di baracche spaventose. Il primo giorno fummo denudate, rapate a zero e ci fu tatuato un numero sul braccio. Questo numero sostituiva allora il nostro nome, ma è diventato negli anni una parte di me; si identifica per me con il dolore puro, con il violento cambiamento di ruolo che dovetti subire, da figlia a ragazzina disgraziata e sola in un lager.
Imparai in fretta che lager significava morte, fame, freddo, botte, punizioni; significava schiavitù, umiliazioni, torture, esperimenti. Fui mandata a lavorare in una fabbrica di munizioni che non si fermava mai, perché lavorava per la guerra. Ci facevano marciare cantando fino alla fabbrica e ritorno, al suono della orchestrina delle prigioniere violiniste. Sentivamo sulla strada dei rumori familiari: suono di campane, di aerei di passaggio, ma eravamo dimenticati dal mondo fuori dal campo. Se incrociavamo dei giovani della Hitlerjugend, questi ci sputavano addosso e ci insultavano. Le sorveglianti donne erano ancora più crudeli degli uomini; avevano potere di vita e di morte sulle prigioniere e si scatenavano su di noi con ingiustificata violenza. Vivevo con una incessante paura, mi chiudevo sempre di più in me stessa, cercando di essere invisibile. Sul mio corpo di adolescente la pelle era cascante e le ossa sporgevano da tutte le parti. Non sapevamo che giorno e che ora fosse, non potevamo avere notizie di nessun genere. Vivevamo in assoluta promiscuità, senza rimanere un attimo sole. Dormivamo in 5, 6 per giaciglio, utilizzando i nostri zoccoli come cuscino. Ci servivamo dei gabinetti in 20, 30 contemporaneamente e, senza un cucchiaio, dovevamo inghiottire a sorsate, come animali, la zuppa orrenda che ci veniva data una volta al giorno. La lotta per la sopravvivenza era senza quartiere: le prigioniere affamate e disperate avrebbero fatto qualunque cosa per un pezzo di pane. Passavano i mesi e noi obbedivamo ciecamente agli ordini, poiché volevamo vivere. Cercavamo di non perdere almeno il nostro cervello. Io tentavo di sdoppiarmi, immergendomi in un mondo irreale e mi sforzavo di non vedere e di non sentire. Di non vedere i cadaveri nudi e scheletriti, ammucchiati in attesa di essere bruciati; di non vedere le punizioni, la fiamma del camino, la neve sporca, i fili spinati percorsi da corrente elettrica. Di non sentire di notte le grida, i fischi, i comandi urlati; i racconti delle altre prigioniere sulle atrocità viste o subite.
Alla fine del gennaio 1945, con l’avvicinarsi dei russi, il campo fu in parte distrutto dai nazisti in fuga e tutti i prigionieri in grado di muoversi furono evacuati verso altri campi. Fui avviata con altre disgraziate come me, a piedi, sulle strade della Germania. Non mi voltavo a guardare le compagne che cadevano e che venivano finite con una fucilata alla testa. Andavo avanti e comandavo alle mie gambe di camminare. La strada era disseminata di morti senza tomba. Ci buttavamo sugli immondezzai e ci riempivamo come pazzi di qualunque cosa. Arrivai al campo di Ravensbrück e poi ancora altri campi, fino alla primavera del 1945. Vive per miracolo, scheletri senza parvenza di femminilità, vedemmo fuggire i nostri aguzzini e giungere gli americani da una parte e i russi dall’altra. Eravamo testimoni della Storia che cambiava sotto i nostri occhi, sconvolte, stanchissime ed emozionate. Tornai a Milano dopo mesi, quando gli americani riuscirono a organizzare il rientro, dopo averci diviso per nazionalità. Nell’agosto del 1945 arrivai, in un camion americano in piazza Cadorna. Mi avviai alla mia casa di corso Magenta per vedere se c’era qualcuno dei miei, ma le finestre rimasero chiuse per sempre.”
Liliana Segre, nata e cresciuta a Milano, deportata e sopravvissuta al campo di sterminio di Auschwitz
Primo Levi
Primo Levi è nato il 31 luglio del 1919 a Torino, i suoi genitori erano di origine ebraica, Primo Levi si è diplomato nel 1937 al liceo classico Massimo D’Azeglio e e poi iscritto al corso di laurea in chimica presso la facoltà di Scienze dell’Università di Torino. Nel 1938, con le leggi razziali, nasce la legge per la discriminazione contro gli ebrei, ai quali è vietato l’accesso alla scuola pubblica. Levi quindi essendo ebreo inizia ad avere dei problemi con gli studi ma riesce comunque a laurearsi nel 1941 precisando sulla sua laurea di essere un ebreo.
Comincia così la sua carriera di chimico, che lo porta a vivere a Milano, fino all’occupazione tedesca: il 13 dicembre del 1943, infatti, viene catturato a Brusson e successivamente trasferito al campo di raccolta di Fossoli, dove comincia a lavorare per i tedeschi. Nel giro di poco tempo, infatti, il campo viene preso in gestione dai tedeschi, che spostano tutti i prigionieri ad Auschwitz.
Levi arrivato in Germania viene deportato a Monowitz, vicino Auschwitz, in un campo di lavoro i cui i prigionieri sono al servizio di una fabbrica di gomma, là venivano rasati, tosati, disinfettati e vestiti con dei pantaloni e delle maglie a righe, su cui incidevano dei numeri, uguali a quelli con cui li marchiavano. Dietro quel numero non c’era più un uomo, ma solo un oggetto, se funzionava, andava avanti, se si rompeva, veniva gettato via.
Primo Levi fu tra i pochissimi a far ritorno dai campi di concentramento.
Dopo aver sentito varie testimonianze false Levi decide di raccontare la sua storia per fare in modo che tutti sappiano e così inizia a scrivere il suo primo libro “Se questo è un uomo” e sucessivamente ne scrisse tanti altri fino al 1987, anno della sua morte.
Commento personale
Io ammiro Primo Levi in particolare per il coraggio che ha avuto, credo che pochi dopo essere stati nei campi di concentramento siano riusciti a raccontare tutta la loro storia, ma lui capendo che la gente doveva essere informata andò oltre le sue paure riuscendo a scrivere dei libri in cui raccontava la vita nei campi così da rendere la gente più partecipe per ricordare e farla pensare su ciò che accadde.
Bene Vale sempre la pena di ricordare Primo Levi
Il fatto che i calciatori ricordino l’allenatore ebreo che scoprì Giuseppe Meazza è un gesto davvero significativo e da cui dovremmo prendere esempio.
Io do ragione a Sara e Giorgia su quello che hanno detto perché è vero, per i tedeschi gli ebrei erano tutti uguali, venivano discriminati e costretti a fare i lavori più umili, pesanti e faticosi, rinchiusi in campi di sterminio senza via d’uscita.
Il gesto che hanno compiuto, cioè quello di affiggere una targhetta in ricordo di Sweiz mi fa capire che anche delle persone comuni, non tanto per la loro fama o importanza, sono degne di essere ricordate, in questo caso Sweiz viene ricordato per avere scoperto il talento di Giuseppe Meazza.
Secondo me, è molto importante ricordare le vittime della shoah, per non dimenticare, ricordare e non commettere lo stesso errore in futuro.
Secondo me, una targa per le vittime dell’olocausto è una buona idea perchè invita le persone a ricordare; questo è un esempio che è molto vicino a noi ed è stato interessante perchè pensavamo che gli ebrei fossero tutti avvocati, medici, ecc… ma
grazie aquesta targa per un giocatore ebreo può farci riflettere.Il 27 febbraio 2002 si è svolto presso la sala conferenze di corso Garibaldi, a Palazzo Magnani, Reggio Emilia, l’incontro con uno dei pochi sopravvissuti ancora in vita, del campo di sterminio nazista di Auschwitz – Birkenau. Piero Terracina nasce nel novembre 1928 a Roma e a 15 anni viene deportato, per motivi razziali con tutta la famiglia.
lui dice:”Auschwitz. Perché ricordarlo? Perché fu progettato per sterminare con cinica intelligenza ed efficienza. Era una fila interminabile, uomini donne e tanti bambini che venivano inviati ogni giorno alle camere a Gas. Vi rendete conto di cosa significa vivere in quelle condizioni? Giorno e notte uscivano fumo e fiamme dai forni crematori.. con scintille ben visibili. Era una fila interminabile di uomini di tutte le regioni d’Europa.. che erano figli, sorelle, padri, madri, tutti con una propria vita, tutti che dovevano ugualmente morire.”.
Poi disse:”Ero un ragazzo felice, l’ultimo di una famiglia di otto persone, protetto dall’affetto di tutti. Tre giorni prima avevo compiuto 10 anni. il 15 novembre come tutti gli altri giorni entrai in classe e mi diressi verso il mio banco ed ebbi la sensazione che i miei compagni mi osservassero in modo insolito. L’insegnante fece l’appello ma non chiamò il mio nome; soltanto alla fine mi disse che dovevo uscire e alla mia domanda: ‘Perché? Cosa ho fatto?’ Mi rispose : ‘Perché sei ebreo.
Mi sentii smarrito, provavo rabbia e mi rendevo conto che stavo subendo una terribile ingiustizia. Ero stato educato all’ amore per lo studio e mia madre non tralasciava occasione per ricordarmi che riuscire nello studio era il mezzo per riuscire nella vita e pensai subito alle sue parole. Andai con il pensiero al mio futuro e mi vedevo costretto a dover svolgere i lavori più umili per vivere. E poi gli amici. Erano tutti lì in quella classe. Avrei potuto averli ancora come amici? No, non fu possibile. Non è mai arrivata una telefonata di un genitore per avere notizie. Tutti spariti. Ci sarà pure stato qualcuno che non era fascista, eppure nessuno ha mai mostrato indignazione per quello che stava accadendo ma neppure solidarietà. Evidentemente era una cosa che non riguardava la gente,ma riguardava gli altri e gli altri eravamo noi Ebrei.
Passai subito alla scuola ebraica che era stata organizzata in tutta fretta per accogliere quel gran numero di ragazzi cacciati dalle scuole di ogni ordine e grado (anche non governativa, recitava la legge). Non fu certo difficile formare un corpo insegnante molto valido per il fatto che tutti i docenti ebrei dalle elementari all’università avevano dovuto abbandonare anch’essi la scuole pubbliche e si erano improvvisamente trovati senza lavoro.
Il primo anno, in quinta elementare, fu un anno di transizione. Molti disagi anche per la mancanza di spazi adeguati. Nacquero però subito tra i correligionari, che in precedenza non avevo mai frequentato tranne i miei cugini, delle nuove amicizie e alcune delle mie amicizie di oggi sono ancora quelle nate allora. Poi l’anno successivo le medie, in quella che era certamente una scuola diversa, non solo per la capacità che gli insegnanti dimostravano nella disciplina che erano chiamati ad insegnare, ma anche per la loro qualità di educatori. Alcuni conoscevano le nostre famiglie e se lo ritenevano necessario ci seguivano anche al di fuori della scuola. Ho un ricordo molto bello dei miei insegnanti e in particolare del preside, il professor Cimino, un giovane professore non ebreo che era stato nominato dal Ministero. Entrava spesso nelle classi e ci incitava a studiare perché, diceva, voi e soltanto voi dovete e potete dimostrare che, malgrado quello che vogliono far credere non siete inferiori agli altri giovani della vostra età e queste parole erano per noi uno stimolo molto importante.
Ma quella scuola funzionò soltanto fino all’anno scolastico 1942/44. Poi con l’ 8 settembre e l’occupazione tedesca ci fu il precipitare degli eventi: la fuga dalle nostre case braccati dai fascisti, la consegna, me e i miei familiari insieme a migliaia di nostri correligionari, ai loro alleati tedeschi per essere portati a morire per gas nei lager dell’est e per essere dati alle fiamme nei forni crematori. Fummo traditi per 5000 lire a persona da un ragazzo fascista che tra l’altro corteggiava mia sorella. 8 persone totale 40.000 lire. A quei tempi era una bella cifra. Vennero 7 SS in pieno assetto di guerra, urlando cose incomprensibili. Eravamo tutti insieme per festeggiare la pasqua ebraica.
Dopo un esperienza come questa come è stato il suo ritorno alla vita?
Quando siamo stati liberati, pesavo 38 chili. Io camminavo, ma erano tanti quelli che non si tenevano in piedi. Dopo un po’ li crollai, dopo fui portato dai russi in un ospedale militare. In seguiti fui portato nell”ospedale di Leopoli. Li..ripresi a piangere e presi coscienza di quello che era stato perpetrato da persone normali ai nostri danni.
Dopo qualche tempo fui mandato in un sanatorio nel mar Nero. Li ho ripreso ad avere amicizie, lì sono nati alcuni affetti come quell’ infermiera che mi ha curato. Sono rientrato in Italia dopo un anno. Fu in Unione Sovietica che ripresi a vivere ..ricordo ancora oggi la mia prima partita a pallone…
Arrivato in Italia mi sono sentito solo con il peso della solitudine. Amici ebrei mi hanno offerto un lavoro, allora non sapevo fare nulla, ma ne avevo bisogno, alcuni cugini scampati mi hanno offerto il sostegno. Quello che è stato determinante per il mio recupero sono stati gli amici, che mi hanno fatto sentire un ragazzo come loro. Uno che è stato ad Auschwitz non può più essere una persona normale. Ho ripreso a lavorare, questo mi ha fatto fare dei progressi.
Pensando a me stesso.. le gioie le apprezzo di più degli altri. I dolori li accetto..ma non accetto ancora la perdita della mia intera famiglia ad Auschwitz.
Cosa pensa delle altre minoranze perseguitate?
Li metto tutti al stesso piano. Il popolo zingaro è un popolo di grande cultura, che che se ne dica. Oggi è vero alcuni di loro si sono dati al furto. Siamo stati noi a fare scomparire i loro mestieri. Il creare recipienti di rame era il lavoro degli zingari. Gli abbiamo sempre perseguitati . In questi giorni è stato data la cattedra a Trieste a Santino Spinelli di lingua e cultura zingara. Se gli diamo la possibilità di emergere non c’è nessuna razza, non c’e’ la razza inferiore o razza superiore. Diamogli il tempo e la possibilità. Ho visitato un campo zingari a Roma ed ho avuto l’impressione di essere tornato ad Auschwitz. Non cerchiamo di emarginarli ancora.
Ad Auschwitz ho visto morire 9000 zingari in una notte. Famiglie che vivevano insieme nel campo affianco al mio separati da fili spinati elettrificati,[ per loro non era stata decisa la soluzione finale], loro avevano tutti i capelli, cantavano, c’era gioia nel loro campo, ..eppure è bastata una notte.. e dopo il silenzio.. tutto il loro blocco era stato evacuato. Quella notte in 9000 erano stati mandati nelle camere a gas. Per fare spazio ad altri prigionieri… Ogni giorno non sapevi se saresti stato tu il prossimo…Funzionava così ad Auschwitz.
Ho deciso di scrivere di Piero Terracina perhè è un ebreo italiano e perchè ha avuto il coraggio di raccontare le sue disavventure.
Bene, è una storia molto interessante e forse meno conosciuta.
Io credo che lo stadio noto adesso come San Siro abbia fatto un grandissimo gesto anche per far vedere e mettere ancora una volta in primo piano le disgrazie della sterminazione ebrea. Con questo gesto si può anche capire che l’Italia non è solo come viene descritta adesso, ladra, malfamata, disorganizzata, ma ha fatto delle cose comunque molto belle nella storia.
E’ stato un gesto veramente molto sigificativo per la storia del calcio italiana.Non pensavo neanche per sogno che esistesse un allenatore ebreo che è morto ad Aushwitz. Dovremmo ricordare tutte le persone morte nello sterminio razziale tedesco. Una cosa che ho pensato subito è che uno stadio di calcio , dove migliaia di tifosi accaniti affollano uno spzio, non è un posto per posizionare una targa in ricordo. Poi , ripensando a quello che ho detto prima, ho capito che tutti devono ricordarsi dello sterminio, anche chi a volte non ha rispetto di un allenatore della squadra avversaria. E’ stata un cosa molto bella e importante.
Credo che sia un gesto bellissimo quello che ha fatto il comune di milano per ricordare le vittime della Shoah .
Un gesto fantastico perchè nessuno al mondo deve scordare ciò che è accaduto e si cerca di ricordare soprattutto per non ripetere ciò che è successo!
Secondo me quella targa ha donato onore ha tutti gli ebrei morti ma anche a gli ebrei vivi , però come dice Saretta98 non solo i calciatori dovrebbero avere una targa ma tutte le vittime per vedere quante persone sono morte e anche per ricordare ogni persona .
Speriamo che la giornata della memoria sia stata ricordata da tutti.
Ieri sul giornale Leggo è uscito un articolo che fa proprio al caso mio.
Il titolo è:Philip Roth ,l’ebreo “che odia se stesso”.
Philip Roth nato a Neewark nel New Jersey.
Nell’articolo dice:”Non sapevo neanche cosa volesse dire.”Questa frase si riferisce al suo stupore legato all’eserdio letterario,Goodbye Columbus pubblicato sulle pagine del New Yorker.
A 26 anni gli valse il titolo di self-hating jew,ossia ebreo che odia se stesso.
Lui un ebreo cresciuto ebreo improvvisamente giudicato un antisemita per il semplice fatto di aver raccontato delle semplici storie.
Storie sbagliate,secondo i molti jewis che smisero di leggere il New Yorker.
Storie coinvolgenti per i giurati che nel 1960 gli conferirono il National book Award.
Storie molto emotive per lo stesso Roth,che dalla rabbia della prima reazione del pubblico trasse lo stimolo per cotinuare a raccontare con ancora più tenacia la realtà con l’umorismo impietoso.
Protagonista,la middle-class di ebrei americani.
Roth ritratta con i suoi limiti e le sue ipocrisie non fa superare le difficoltà ai suoi personaggi per idealismo o sentimento, limitandosi a “dimanticarli” nell’incontro-scontro del sesso,alla ricerca di emozioni forti per tutti.
Compiere il gesto di raccontare a qualcuno di fidato delle azioni subite in passato è difficile perchè si tende a dimenticarle,scrivere un libro su di esse è un atto di follia.
Ed è per questo che lo ammirrò perchè è riuscito a lottare contro tutti ed arrivare da solo in cima a questa montagna metaforica,ha scavalcare tutti i massi che gli ostacolavano la strada.
Ho deciso di scrivere di lui perchè credo che dimenticarli sia peccato e per altri nominarli è sacrilegio.
Ricordare per me è significativo per ricordarci di cosa è capace l’uomo.
Io credo che ciò possa aiutare molto a ricordare perchè fa capire che il problema non è lontano come sembra, ma molto vicino e il fatto che ne parli una squadra ti fa capire quanto la cosa sia importante.
Come Saretta98 anche io credo che tutti debbano ricordare ogni ebreo e che ciascuno di loro si merita una targhetta anche perchè nei campi di concentramento i tedeschi non facevano alcuna distinzione tra loro, gli reputavano scarti della società e per questo vennero tutti uccisi.
Gli ebrei si meritano sicuramente di ricevere una targhetta ciascuno e se questo fosse impossibile allora almeno farne una molto grande in loro memoria.
Anche se comunque credo che possa essere già un inizio il fatto di ricordare questo allenatore.
e gli altri cosa pensano? Guardatevi il video!
Secondo me, una targa dovrebbero farla a tutti gli ebrei che hanno subito le torture dei campi di concentramento per far vedere alla gente quante targhe dovrebbero realizzare.
La morte di questo calciatore e allenatore di classe ci fa capire di che pasta sono fatti gli ebrei che non sono una “razza” ma che hanno le nostre stesse capacità e se si impegnano riescono a fare tutto molto bene.
Dicono che i grandi uomini non devono scappare davanti a grandi pericoli ma….io sarei scappata come ha fatto lui.
Grazie Saretta98 del tuo commento!